Non sarò mai la brava moglie di nessuno, di Nadia Busato (Ed. SEM, pp. 255, 2018)

Cos’è, questo libro?
Un’immagine potente è la sua origine. Un corpo che vola da un grattacielo e sembra essere atterrato intatto. Un miracolo che LIFE pubblica, e nasce l’icona. La foto bellissima di una morte. Il libro è questo, il contrasto tra vita e morte, l’incontro tra felicità ed infelicità, la differenza tra quel che appare e quel che è, un’indagine nel luogo che tutti cerchiamo di evitare, quella zona d’ombra del nostro animo e dell’esistenza che la maggioranza scansa e supera, ma che per qualcuno significa precipizio. Non è solo la storia di Evelyn, non è solo la storia della sua depressione personale, non è solo una storia di un microcosmo privatissimo. È la sua storia, ma anche quella di un fotografo fortunato, di sua madre che apre una strada che lei ricalca, di sua sorella, di un quasi marito sfortunato, di una donna che desiderava lo stesso epilogo di Evelyn ma che un colpo di vento ha modificato. Alla fine la vita può essere questo, un destino giocato su un colpo di vento, fragilità che passeggiano su un filo, un filo costruito da una storia personale, solo nostra, e quindi ognuno reagirà e resisterà o meno a quella improvvisa folata. Un libro che dal privato va al generale, mettendo sotto accusa il famoso sogno americano, sogno americano che prevedeva che le donne lo vivessero esclusivamente dalle retrovie, un sogno vissuto dalla cucina, qualcosa che Evelyn non poteva accettare.

«Tu credi che la vita sia una grande tavola a cui le donne devono stare sedute composte, al loro posto, coi gomiti stretti e lo sguardo basso. Pensi che le cose andranno bene finché mangeremo in silenzio gli avanzi dei piatti che gli uomini si degneranno di passarci. Che dovremmo essere gentili e allegre, riconoscenti e pudiche, che non dovremmo mai protestare e dire sempre grazie per tutto quello che ci è concesso. Tu pensi che l’amore spieghi tutto, che risolva tutto. Invece l’amore non sistema niente, non tiene unita una tavola, non rappezza i cocci; perché non esiste, è la favola che sentivi da bambina, che ti hanno ripetuto alla radio, con le commedie, le canzoni, che hai letto nei libri da due soldi, che trovi sulle riviste di moda, quella storiella che sai a memoria e ti ripeti continuamente per rassicurarti, da sola o in coro insieme alle tue amiche oche. Ridete e aspettate di consumare per una vita lo stesso vialetto di casa, perse in qualche tinello con bambini urlanti e mariti impegnati a segnare con un culo sempre più grasso il loro posto sul divano e nel mondo. Finché non avrete più capelli su cui appuntare nastri, né denti per sorridere, né fiato per ripetere ancora, all’infinito, ad altre giovani donne la vostra stupida fiaba. Quella che vi fa alzare ogni giorno e ringraziare per il sole e la primavera. Come se fosse merito vostro. Come se ve li meritaste la primavera, il sole, la bellezza, la felicità, l’amore. Mi fai schifo tu e il tuo amore fatto di cipria e di biscotti caldi e di aspettative. Tutte le volte che ti faccio una domanda, finisce che mi rispondi con l’amore. Puoi, dico, puoi per una volta, una sola volta, rispondermi qualcosa non dico di intelligente, ma almeno di sincero?!»

Evelyn divora e brucia tutto, Evelyn si sente spezzare dentro ogni giorno.

“Da fuori non si vede niente, non lo sente nessuno”

Nadia Busato ha cercato la verità su quella morte lontana con un lavoro immagino ai limiti del proibitivo, aggiungendo poi forzatamente la sua fantasia, cercando di interpretare i pensieri di chi non ha mai conosciuto, e devo dire che tutto risulta credibile, e bello. Diversi punti mi sono risultati ostici, ma è colpa mia, molto più che probabile, ma la bellezza di tanti altri passi davvero poetici e durissimi mi ha lasciato la sicura impressione di aver letto un libro davvero potente, originalissimo, bellissimo, con un incipit ed un capitolo finale al di sopra di ogni altra cosa.

Musica: In your own time, Keane

Zebio Còtal, di Guido Cavani (#Readerforblind, 2021-prima edizione 1961- pp.256)

Che romanzo, che scrittura.
Asciutto, secco come la terra contadina che descrive, con il genere umano descritto in modo minuzioso e che vive parallelamente ad una natura sempre e costantemente presente, che sempre accompagna stati d’animo e vicende dei personaggi. Un rapporto ambivalente, di comprensione e di lotta. Un romanzo che non sembra contenere pietà per nessuno. Zebio è un uomo basso, tarchiato, arcigno, un uomo fatto “della stessa razza dei lupi”. Placida, sua moglie, una donna votata al sacrificio, una madre buona, l’unica capace di catalizzare amore, l’amore dei sei figli. Tante bocche da sfamare, troppe, per Zebio i figli sono solo un problema, non una soluzione. Bisogna spaccarsi la schiena, con la convinzione però che sia tutto vano:

«Tirare, tirare sempre, con la frusta alle reni; farsi rodere dalla strada e senza mai arrivare a capire perché, per vivere, si debba sopportare tanta fatica»

Non trovare il motivo per cui andare avanti così, nella miseria, per coltivare un campo che invece di grano, come premio di tanta fatica, restituisce gramigna.

“Il grano ci veniva su a stento; la pioggia lo spiantava, il vento lo torceva in tutti i sensi, il sole lo strinava, senza lasciarlo maturare. Anche le patate allignavano alla meglio.”

La vita è un tunnel buio, anche la casa di questa famiglia risponde a questa descrizione
“era una bicocca di sassi, dal tetto convesso e dalle finestre buie; pareva che tutto quel sole che batteva contro i suoi muri non riuscisse ad entrare nelle stanze.”

Zebio è un tiranno che ordina, urla, picchia, con una cinta borchiata. A suo modo, un eroe, o un antieroe, avvelenato dalla vita, dalla rabbia, che sfoga con alcol e botte, in un circolo vizioso che non sembra poter aver termine. La sua è una lotta impavida col destino, bisogna sempre andare avanti, senza mai fermarsi, e la rabbia cresce, non gli fa sopportare nemmeno la sua figura
“Camminava in fretta sui grossi ciottoli della strada, lungo la quale, qua e là, rassodava al sole lo sterco dei bovini, e i tritumi di paglia lucevano come pagliuzze d’oro; e mentre andava, continuava a pestare rabbiosamente la sua ombra che gli ballava tra i piedi come per farlo inciampare.”
Tutto congiura contro di lui, gli uomini, Dio, il destino.

Gli uomini sono cattivi, la Natura li ripaga con la stessa moneta:
“Le piccole case di sasso apparivano seminascoste fra le siepi selvatiche di rovo che circondavano gli orti e fra i pochi alberi intristiti dalla troppa vicinanza con gli uomini.”

Ma non esiste solo il Male, esiste anche un amore che lotta, quello di sua moglie e dei suoi figli. Zuello, spedito lontano a lavorare, una bocca in meno, e poi scacciato, Zuello che fa ritorno a casa e l’amore per il suo luogo di nascita è più forte della sofferenza che ha patito per quel padre dal cuore così avvizzito. Ma, alla fine, solo la Morte può donare pace a chi soffre, la Morte che è presente dalla prima pagina e non lascerà mai questo romanzo. Una Morte che non è solo un pensiero per chi si sente sconfitto, ma anche la speranza di salvezza, l’unica che potrebbe offrire un posto migliore in cui vivere. La morte sembra essere l’unico destino possibile di tanto patire, ma non sarà l’unico. Ognuno farà la propria strada, ma ci sarà chi manterrà la compassione nel proprio cuore, anche se sarà una compassione inutile, senza sbocco.
Libro commovente, terribile, che ti spacca il cuore. Personaggi scolpiti nella pietra, Zebio un uomo elegia della Solitudine, un personaggio da vecchio West, siamo nell’Appennino modenese ma sembra di essere nei luoghi di Faulkner o di Steinbeck. Per me è sicuramente un capolavoro, mentalmente ho sottolineato decine di passaggi, decine di descrizioni. Non conoscevo minimamente né romanzo né autore, ho letto che Pasolini aveva amato questo libro, e posso capirne abbastanza bene il motivo. Grato a questa casa editrice per averlo riscoperto.
Il miglior libro del mio anno, per distacco.

Musica: Pane e castagne, Francesco De Gregori


Sedici parole, di Nava Ebrahimi (Ed. Keller, pp.330, 2020,(prima pubbl. 2017) trad. Angela Lorenzini)

Sedici parole nella tua lingua, ma che non è più la tua. Il tuo Paese, l’Iran, ma tu ora sei in Germania. Il romanzo è molto lento, spesso ripetitivo. Non mi ha trascinato tanto per come è scritto, ma per il tema trattato. Perché parla di tutto il mondo, alla fine. Non solo di chi fugge dalla propria patria perché inseguito da guerra e fame, o da un lavoro che non c’è, o spinto dalla ricerca di una vita migliore, dalla ricerca della libertà, come tantissimi profughi vivono sulla loro pelle, ma parla anche in generale di chi non ha ancora trovato il proprio ruolo, sul palcoscenico dell’esistenza, chi ama e non è riamato, chi non sa amare ancora, chi ha sbagliato e vuole ripartire dimenticando gli errori ma facendone tesoro, chi si trova sospeso in un limbo e non appartiene a niente e a nessuno, insomma tutti quelli che cercano se stessi prima ancora che una possibile felicità materiale. Il libro non resterà tra i miei libri del cuore, ma fa pensare tanto, intriso completamente in un secchio di malinconia densissima.

Musica: Mohsen Yeganeh – Behet Ghol Midam

Novecento, di Alessandro Baricco (Ed.Feltrinelli, pp.64, 1994)

Riletto, su spinta di una sfida letteraria, a qualcosa servono, le sfide.

Baricco è un incantatore, e qui sfrutta al massimo le sue doti. Teatro, cinema, musica e poesia, tutto in una volta.
Parole, musica, onde del mare, metafora della nostra esistenza, quando spesso ci si rifugia e si tenta di fuggire dalla vita, si fanno due passi ma poi si torna indietro, indisponibili a scambiare un luogo certo per uno incerto, che non offre garanzie. Ma la vita, alla fine, ti trova, puoi nasconderti quanto vuoi ma arriva il momento in cui dovrai pagare il tuo conto e commettere gli errori che hai sempre evitato di commettere. Novecento no, non si è fatto trovare. Ha preferito scegliere di rinunciare ai doni che potevano arrivargli, ha preferito continuare ad essere il Capitano della sua nave, Capitano di sé stesso e delle sue passioni, a non farsi dettare lo spartito da nessun altro, per continuare a suonare una Musica solo sua, tutta sua, senza compromessi, incantando i suoi desideri. E nello tempo è la dichiarazione di resa, di impotenza, come essere umano, capace di suonare solo quei meravigliosi 88 tasti e non i milioni che il mondo intero richiede, che la vita, chiede. Incompatibile con la vita altrui, con la musica altrui.

“Anche soltanto le strade, ce n’erano a migliaia! Ma dimmelo, come fate voialtri laggiù a sceglierne una.
A scegliere una donna. Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire.
Tutto quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n’è.
Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla…”

Piccolo, grande poetico capolavoro di Baricco, che ci fa stare in balia ipnotica e malinconica delle onde, marine e sonore. Sessanta pagine lette trattenendo il fiato. Piccola grande magia ben riuscita.

Musica: Keith Emerson – Honky Tonk Train Blues

Le gratitudini, di Delphine de Vigan (Ed. Einaudi, trad. Margherita Botto, pp.160, 2020).

Questo piccolo libro è un gioiello. Ti ritrovi dentro la scena, sembri partecipe, protagonista anche tu, è un libro in cui contano anche i silenzi e gli sguardi, che tu lettore sembri percepire con esattezza. Ti ricorda che cosa può significare essere umani. Scritto con una piuma che scava una crepa.
L’anziana protagonista perde via via le parole. La narratrice le trova e le incastona con una delicatezza rara, rarissima, fino a comporre questo elegante, delicato e commovente racconto. Sono rimasto coinvolto dalle prime righe ed è stato difficile smettere di leggere. Per qualche ora ho dimenticato pandemie e vita reale, ma nello stesso tempo questo libro ti costringe a riflettere mille volte sulla vita, sugli affetti, sulle cose che abbiamo detto e sulle tante ancora che teniamo per noi e non riusciamo a dire. Questo libro parla delle nostre vite, del nostro essere deboli, fragili, del nostro quotidiano indietreggiare di fronte alla vita che sembra tenderci tranelli ma che noi continuiamo ad amare, dei ricordi che arrivano, di quelli che ritornano, di quanto sia importante la cura dell’altro e del pronunciare la parola grazie senza sprecarla, della paura di morire e della consapevolezza che quel momento si avvicina. Nonostante il tempo che non sembra darci la possibilità di chiudere cerchi e conti, noi ci proviamo, fino alla fine. È un grande insegnamento, una delicata e commovente carezza al cuore, a cui credo penserò spesso.

Musica: Thank U, Alanis Morrisette

Le intermittenze della morte, José Saramago (2005- Ed. Feltrinelli, 2013, trad. Rita Desti, pp. 224)

Saramago, sempre lui, non cambia. Il solito “vizio” di stupire con questa prosa logorroica, senza virgole, senza punti, un fiume di pensiero ininterrotto, dialoghi che diventano un unico lungo monologo. L’espediente iniziale originale, unico. Una volta è l’epidemia di cecità, un’altra può essere la scoperta di un sosia, stavolta lo sciopero indetto dalla Morte. Incipit che non si dimenticano, stile di scrittura che può risultare largamente indigesto per molti, ma che, in qualche modo, ti tiene lì. Il “vizio” di mettere sotto accusa la politica, il capitalismo, il modo di vivere conseguente. Il vizio di raccontare le debolezze degli uomini attraverso l’iperbole, il paradosso che scompagina le vite di tutti, le vite tranquille di tutti, dove la tranquillità somiglia spesso alla mediocrità, supina accettazione di un destino stabilito da altri, più in alto, che siano la politica o la religione, ma alla fine, quando l’evento clamoroso e surreale arriva, finisce per dimostrare l’incapacità di gestirlo da parte di tutti, nessuno escluso. L’assenza della morte improvvisamente tutti ci livella in una gioia apparentemente duratura, ma, alla fine, tutti di nuovo reagiremo mostrando le nostre personali incapacità, le nostre personali debolezze e vergognose mancanze e miserie umane. Il potere, temporale e spirituale, si riassesta, ipocritamente, per non perdere il suo status, la gente comune si riassesta per poter sopravvivere. Non ha pietà di nessuno, Saramago. Nè dei potenti né degli umili, attraverso la risata, l’ironia, il surreale, ci mostra la nostra inevitabile caduta. Nemmeno la Morte si salva dalla debolezza personale, anche la Morte cade. Ma nello stesso tempo, cadendo tra i mortali, insegna loro a godere degli attimi irripetibili che la vita offre loro.

Musica:Bach, cello Suite n.6, M. Rostropovich

Lucky, di Alice Sebold (Edizioni E/O, 2018, pp. 320, trad. Chiara Valeria Letizia)

Stupro.

Non ci si può girare intorno, non si può edulcorare. La Sebold non lo fa, non ha la minima intenzione di farlo, colpisce diretta, senza giri di parole, scrive in maniera chirurgica di se stessa e di tutto quello che ha dovuto subire, lei è la vittima, lei ha patito, lei è morta dentro in quel momento e sempre lei, da sola, ha provato a venirne fuori, e la prima mossa, il primo passo per farlo, è stato quello di dare una definizione alla cosa, l’unica possibile.

“Nessuno ti può tirare fuori da nulla. O ti salvi da sola, o non ti salvi.”

Autobiografia, inchiesta, indagine psicologica, c’è di tutto. Soprattutto c’è un incommensurabile dolore, che costringe a tirar fuori unghie e denti per sopravvivere, per farsi accettare di nuovo da tutti, compresi i tuoi genitori, perché davvero sei sola, dopo uno stupro subito, lo capisci anche dagli sguardi. La vera lotta della Sebold è far capire di essere vittima, una lotta durata anni, probabilmente tutta la vita. Non bastano le prove evidenti, la gente ti indica, ti scansa, ti compatisce come se avessi comunque commesso un errore tu. Una lotta partita un secondo dopo la violenza, proseguita durante un processo che, nonostante le evidenti prove, costringe la vittima a dimostrare al mondo di essere davvero vittima e non, in qualche modo, colpevole. E lo vediamo ogni giorno, questo ribaltamento della realtà. Il romanzo è il racconto di un incubo nerissimo, una galleria buia che ti artiglia e non vuole restituirti alla luce. Ho letto le pagine in cui descrive la violenza subìta fermandomi più volte, mi sono scoperto anche a coprire le righe con le dita, o a guardare in alto più volte, interrompendo la lettura…non posso avere idea di quello che ha sofferto, ma lei lo ha descritto in modo mirabile. Ma le vere riflessioni le scatena dopo, quando descrive la sua vita seguente, dopo quella morte psicologica nasce un’altra persona, staccata dal mondo, e che nel mondo deve e cerca di rientrare e di esserne accettata, accolta.

“Dopo la pubblicazione di Lucky, quando la mia storia divenne di pubblico dominio, e soprattutto dopo l’uscita di Amabili resti, cominciai a entrare in contatto con uomini e donne, ragazze e ragazzi, che erano stati violentati o molestati, e rimasi travolta dai loro racconti e dall’enorme quantità di lettere che ricevevo, contenenti resoconti dettagliati di stupri e incesti. Senza volerlo, avevo creato uno spazio in cui chi aveva subìto una violenza sessuale poteva raccontare la propria storia. E per molti io ero la prima persona a cui l’avessero mai raccontato. Le rivelazioni affrettate durante le code per gli autografi, le lunghe, fittissime lettere battute a macchina e, forse perfino più toccanti, le calligrafie ancora infantili sui fogli a righe contenevano spesso la frase: «Quello che è successo a me non è nulla in confronto a ciò che è capitato a te». Eppure i racconti di abusi sessuali che seguivano mi parevano spesso molto più tremendi della mia vicenda. Ricevetti un numero scioccante di lettere da parte di ragazze e ragazzi abusati da familiari, convinti che a me fosse accaduto di peggio perché ero stata violentata da uno sconosciuto. Un’ulteriore prova, nel caso ce ne fosse bisogno, di come uno stupratore può violentare non solo il corpo ma anche la mente. Ora capisco che “quello che è successo a me non è nulla in confronto a ciò che è capitato a te” fa parte di un modello di pensiero che entra in azione negli istanti immediatamente successivi all’aggressione. Se ti spingono a fondo sott’acqua fai qualunque cosa pur di tornare in superficie e inspirare più aria che puoi per sopravvivere. Compreso sminuire o attenuare la gravità dell’esperienza subìta per prendere le distanze dall’orrore e, in alcuni casi, dall’aver rischiato la morte. La polizia disse che ero stata fortunata perché non mi avevano uccisa; mio padre disse che era contento che fosse successo a me e non a mia sorella perché secondo lui io ero più forte. Ed ecco un’altra frase ricorrente: «Sono contento che mi sia capitato perché altrimenti non sarei la persona che sono oggi». Questa è un’affermazione comune tra i sopravvissuti a una guerra, al cancro, tra coloro che sono rimasti orfani dopo una calamità naturale o paralizzati a causa di un incidente d’auto. E, per molto tempo, l’ho ripetuta anch’io. L’amara verità è questa: se potessi avere una gomma magica e cancellare quella notte del 1981, lo farei in un batter d’occhio, e se potessi dire a qualunque ragazza o ragazzo violentato da un parente che rispetto a lui o a lei sono stata davvero fortunata, lo avrei già fatto. Ma tutto ciò che potevo fare era scrivere un libro e raccontare una singola storia.Sfortunatamente non c’è modo di ricominciare daccapo, e dopo essersi salvati la sfida più grande rimane vivere con la consapevolezza della vita che ti hanno sottratto.”

Musica: Why Does My Heart Feel So Bad? – Moby

Il giardino dei Finzi Contini, di Giorgio Bassani (1962, Einaudi, pp. 293)

Un romanzo che con una mano delicata ci conduce dall’infanzia alla vecchiaia, dall’amore alla morte. È un romanzo dove la Morte staziona senza agitarsi, lo sai che c’è, lo sai che ti attende, è una presenza che non puoi evitare. Lo sai dal principio del romanzo. Elegantissimo, profondo, protagonisti delineati, tratteggiati con accurata precisione. L’orrore del nazifascismo è una nube scura che incombe al di fuori del cancello di questo bellissimo giardino accogliente, lasciando i personaggi a vivere e a crescere, a sognare, a illudersi e a disperarsi, una prigione dorata dalla quale si uscirà, ma rimettendoci la vita. Sono ragazzi ebrei, ragazzi come siamo stati noi, che volevano solo sognare, vivere in pace, partecipare alla vita, dalla quale invece gli è stato ordinato di stare lontani. Ognuno di noi ha avuto un luogo in gioventù dove ha sognato e ha spesso potuto rifugiarsi ad immaginare un mondo migliore di quello che poi ha scoperto essere, un luogo simile a questo giardino, utile a trattenere il più possibile la Morte lontana, un luogo dove giocare, parlare, discutere di politica, restando ignari, consapevolmente o inconsapevolmente, di ciò che la Storia sta decidendo, sperando che quella nube non sia così scura come tutti dicono…un luogo dove coltivare l’amicizia, dove i ceti sociali annullano le loro differenze, e anche un luogo dove sognare l’amore, ma anche l’amore alla fine “è roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda”… e poi alla fine arriva un padre amorevole e protettivo, che quando ti vede trafitto dal dolore per un amore irraggiungibile ti dice che “Nella vita, se uno vuole capire, capire sul serio come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e resuscitare. Capire da vecchi è brutto, molto più brutto, come si fa? non c’è più tempo per ricominciare da zero”.
E capirai che quella nube scura era il vero Male, quello che non fa sconti, che non perdona, un gas malefico che ti stringe la gola e spegne i tuoi sogni. E, se ti salvi, non puoi dimenticare. 

Sfrattati, di Matthew Desmond (Ed. La Nave di Teseo, pp. 624, trad. Alberto Cristofori, 2018)

Sicuramente uno dei libri più interessanti che abbia letto negli ultimi dieci anni.
Saggio accademico e romanzo insieme, insieme alle fredde cifre esiste il caldo delle vite altrui, pulsanti di sofferenza, la sofferenza di chi perde la casa, viene sfrattato, il tema è questo e il titolo non ammette confusioni. Statistica, che diventa lacrima. La casa per tutto il mondo, ma anche e soprattutto per il sogno americano, è la vita, è l’obiettivo primario. Questo libro è frutto dell’inchiesta dell’autore, che per diciotto mesi ha vissuto con queste famiglie che hanno visto sparire questo obiettivo, per la precisione ci sono otto storie di famiglie e persone coinvolte in questa emergenza. La casa è un obiettivo che, quando lo perdi, puoi perdere tutto il resto che conta, come l lavoro, l’istruzione per i tuoi figli, la sicurezza, perché il continuo cambiar casa impedisce la formazione di rapporti interpersonali di quartiere, impedisce che si creino reti di fratellanza tra vicini, e per converso ti porta a vivere in zone sempre meno sicure. Danni materiali, danni psicologici, arriva, con la povertà, la vergogna, la fame, l’impossibilità di essere curato, la difficoltà di mantenere i rapporti sentimentali e di tenere unita la tua stessa famiglia, in contesti che spesso sfociano in violenza, dove lo Stato non aiuta ma reprime e punisce senza alcuna comprensione. Questo libro, personalmente, mi ha aperto un mondo che non conoscevo, qui viene analizzata la situazione di Milwaukee, una città conosciuta da me essenzialmente come sede del telefilm Happy Days, ma che, pur non essendo Los Angeles, San Francisco o New York, ben rappresenta la media delle città americane, dove spesso la realtà industriale è andata in pezzi lasciando macerie fisiche e umane. A Milwaukee vengono eseguiti 16 sfratti al giorno e sedicimila persone all’anno vengono messe sulla strada. La casa è una partita dove si gioca in due, il padrone di casa e l’affittuario, ma sembra che solo i diritti del primo, i diritti di guadagno, il business, vengano difesi e mai messi in discussione.
Uno studioso e giornalista che ha deciso non solo di scendere in campo per fare resoconto e cronaca, ma che si è messo in testa di aiutare a cambiare questo stato di cose, che vede in tutto il mondo una crescita abnorme del costo di un’abitazione, proponendo soluzioni possibili come i voucher per l’affitto, uniti alla rappresentanza legale per gli sfrattati. Questo mastodontico lavoro riguarda gli anni 2008-2009, ed è stato pubblicato dieci anni dopo, il Pulitzer è del 2017, ma comunque non è questo ciò che conta davvero, da questo libro è uscito un database di otto milioni di sfratti da cui sembra essere partito un cambiamento nelle politiche sul tema, sicuramente non ancora sufficiente. Vedremo.

Musica: This hard Land, Bruce Springsteen


Archivio dei bambini perduti, di Valeria Luiselli (Ed. La Nuova Frontiera, trad. Tommaso Pincio, pp. 448, 2019)

Non è riuscito a conquistarmi.
Romanzo complesso, complicato, difficile da leggere per molti tratti, seppur scritto molto bene.
Il tema dovrebbe essere un resoconto delle traversie dei bambini che hanno voluto raggiungere e superare il confine con gli Stati Uniti, invece, essenzialmente, è la storia di una famiglia , le sue dinamiche interne, un viaggio che deve rigenerare, riunire, e finisce invece con il disarticolare maggiormente, un amore che finisce, ammesso fosse cominciato. I due bambini sono delineati bene, i due adulti molto meno, soprattutto il marito, quasi evanescente. E tra la componente adulta e quella infantile si avverte un distacco emotivo e mentale che fa risultare il tutto molto spesso sgradevole.
Il loro viaggio procede in parallelo a quello dei bambini messicani, fino a mescolarsi in una narrazione prettamente onirica. Idea che poteva essere suggestiva, ma per me il romanzo ha perso cuore e anima, non mi è arrivato a livello empatico e sentimentale se non per brevi tratti. Troppo archivio, troppi scatoloni, troppe mappe, troppe storie sovrapposte e alla fine ho perso di vista le persone, qui dentro. Ibrido, troppo ibrida la costruzione tra realtà e teoria, tra romanzo e saggio, documenti scritti e racconto di memoria, troppo, per tenermi incollato e appassionato.

Can You Hear Me, Major Tom? No, non ci sono riuscito, troppi disturbi.

Musica: Space Oddity, David Bowie